entrarono in guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein nella convinzione che la potenza militare americana avrebbe schiacciato in rapido volger di tempo la dittatura mesopotamica.
La drole de guerre si incarognisce. Sempre di più. Giorno dopo giorno. Guerra “strana”, in cerca di una definizione precisa, senza della quale la politica è come un chirurgo davanti al cancro senza bisturi. T.E. Lawrence, il leggendario “Lawrence d’Arabia”, lui, il deus ex machina della vittoria britannica sul Sultano, l’involontario complice della truffa storica che anziché riscattare la grande Nazione araba la smembrò sull’altare del Colonialismo, ha lasciato scritto che “ una rivolta può esser condotta da un 2% di persone attive ( combattenti) e dal 98% di simpatizzanti passivi”. Codesta attualissima “sentenza” può valere per la Resistenza contro il nazifascismo vivisezionata in occasione del 25 di aprile la revisionisti serf e no. Può valere per l’attuale pasticcio iracheno.
Gli Stati Uniti d’America – ce lo dicono i documenti ufficiali, ce lo racconta l’ultimo sconvolgente libro di Bob Woodward “Piano d’attacco” -, entrarono in guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein nella convinzione che la potenza militare americana avrebbe schiacciato in rapido volger di tempo la dittatura mesopotamica. La sconfitta militare avrebbe comportato, automaticamente, la caduta del tiranno Saddam aprendo così la strada della democrazia. Non pochi esperti cercarono (invano) di scongiurare la guerra facendo presente a Bush come il suo nobile disegno (portare la democrazia in Iraq e successivamente in tutto il Grande Medio Oriente), fosse edificante ma tracciato con una matita debole. Data per scontata la vittima militare, a preoccupare gli esperti ( americani ed europei) era giustappunto il “processo di democratizzazione”. Non si può, dall’oggi al domani, promulgare la democrazia, instaurarla, per decreto.
Alla Casa Bianca si replicava agli scettici (e preoccupati) europei portando ad esempio quanto era accaduto in Italia dopo la liberazione ad opera delle forze alleate. Vanamente si cercò di spiegare agli amici americani, agli esperti della Oval room come il paragone fra Italia ed Iraq non stesse in piedi. L’Italia, prima del fascismo, era stata un regno monarchico, di impronta liberale. C’era un Parlamento, il re regnava non governava. Di più: il Fascismo non era riuscito a sradicare la democrazia (anziché relativa) sabauda: centinaia di migliaia erano gli iscritti al partito nazionale fascista (detto PNF: Per Necessità Familiari) che col loro comportamento, con l’insegnamento scolastico eccetera avevano dato vita ad una sorta di attendismo … di piccoli ma continui sabotaggi (negli uffici della grande burocrazia), di una sorta di opposizione psicologica. Certamente gli Anni del Consenso, magistralmente esemplificati dal De Felice, avviarono moltissimo Mussolini nella costruzione del Personaggio-Duce: generoso e coraggioso, leader indiscusso, l’uomo che aveva ridato alla Italietta dignità e prestigio, avviando un volenteroso processo di trasformazione: da Italia agricola a una Italia pre-industriale. Come sappiamo, la sconfitta della Francia ad opera del munitissimo esercito hitleriano spinse Mussolini ad abbandonare l’utile neutralità: gli servivano “mille morti da gettare sul tavolo della pace” al fine di guadagnarsi la sua fetta di vincita sicchè scese in guerra, pugnalando, in fatto, alla schiena la Francia. Il resto è noto. La sconfitta fu rovinosa, gli Alleati liberarono sì l’Italia ma la ararono con terribili bombardamenti, senza misericordia. Grazie tuttavia ai grandi fuorusciti : Saragat, Don Sturzo, il conte Sforza, Pertini, grazie ai Nenni e ai Di Vittorio, grazie soprattutto a quel grande italiano chiamato De Gasperi e grazie all’amor di patria del Re di Maggio, Umberto II, che preferì l’esilio alla guerra civile sacrificando se stesso e la Monarchia, grazie a tutto questo fu relativamente facile per gli angloamericani ridarci la democrazia che esercitammo subito col referendum Monarchia o Repubblica, ripristinando a tappe una democrazia, i cui albori risalivano allo Statuto libertino. Insomma, il seme antico della democrazia, una volta sgomberato il campo dei detriti della dittatura fascista, attecchì e crebbe. Faticosamente ma sempre più speditamente. Nel nostro dna custodiamo il bene prezioso chiamato democrazia.
L’Iraq non è una nazione divenuta tale con guerre di indipendenza, con l’esercizio quotidiano, e difficile, della democrazia: che vuol dire dibattito permanente, rispetto dell’Altro, senso di appartenenza, tradizione, cultura comuni. L’Iraq è un paese artificiale, disegnato “in un pomeriggio di domenica per scacciare la noia”, per citare Chuchill.
L’Iraq è il frutto della spartizione delle spoglie dell’Impero ottomano da parte dei due Imperi coloniali, la Francia, la Gran Bretagna. In realtà il Regno dell’Iraq, il cui trono venne affidato alla fragile dinastia Hascemita, era una “ pizza capricciosa”: curdi, musulmani, sunniti al nord e al centro, islamici sciiti al Sud. La Gran Bretagna impiegò otto anni irti di feroci repressioni, per “pacificare” l’Iraq. Proprio quando il petrolio, ovviamente preso in custodia dalla Gran Bretagna, cominciava a dare i suoi frutti nella costruzione di una Nazione moderna e prospera, irruppe sul periglioso palcoscenico mediorientale il panarabismo di Nasser. Per una sorte di contagio irredentista, il Nasserismo, coniugandosi col panarabismo, diede vita all’istiraki , una forma di socialismo dal volto umano in contrapposizione col Baath mutuato questo, dal nazionalsocialismo tedesco. Il Panarabismo fu l’ultima e vittoriosa lotta degli arabi contro il colonialismo. Nel luglio del 1958 il colonnello Kassem, un gay triste, occupò Baghdad al suolo della Marsigliese, facendo letteralmente a pezzi la famiglia reale hascemita. A Baghdad, che avevo raggiunto con un aereo noleggiato da un simpaticissimo avventuriero inglese di stanza a Beirut, mi vidi offrire al modico prezzo di due file (centesimi di Dinaro) pezzi di carne tumefatta risultato del linciaggio sistematico dell’intera famiglia hascemita.
Di golpe in golpe, l’Iraq repubblicano finì fra le braccia muscolose si Saddam Hussein e furono trent’anni di terrore. Mitigato da una specie di welfare state. L’Iraq si è retto durante il lungo arco di tempo della dittatura baathista di Saddam Hussein in grazia del sapiente alternarsi del bastone e della carota. Il bastone: le strage dei curdi, addirittura gasati; una società del sospetto nelle mani della polizia segreta gestita dai sunniti che periodicamente vessava e /o massacrava gli sciiti (che sono l’60% della popolazione). La carota: il timido welfare state di cui abbiamo detto e la corruzione: Saddam pagava, periodicamente, le varie tribù realizzando così un raro equilibrio tribale sul quale si innestava la stabilità del regime di Saddam.
Subito dopo la presa del potere, in Iran, di Khomeini, l’Occidente –come sappiamo-, si servì di Saddam Hussein per far fuori il vecchio Ayatollah. Durante otto lunghi bestiali anni di guerra, gli Stati Uniti furono prodighi di mappe e di armi, diedero a Saddam quel che gli serviva e, forse, molto di più. “Debbono entrambi (Iraq e Iran) finire stremati, sulle ginocchia” sentenziò Kissinger e così fu.
Scaltro, non privo di in robusto impianto ideologico, Saddam Hussein(che avevo intervistato quando era il numero 2 del regime), convinto della arrendevolezza degli Stati Uniti, Saddam tentò, nel 1991 il colpo grosso e fu l’invasione del Kuwait. “E che il Kuwait avesse prodotto broccoli?” si chiese a tutta pagina il New York times: per dire che in questo caso nessuno si sarebbe mosso, e tanto meno gli americani e tanto meno gli americani che punirono Saddam non solo perché aveva violato il diritto internazionale, ma soltanto, o soprattutto, perché il Kuwait è una cassaforte di oro nero e giallo ed ha montagne di capitali investiti in tutto il mondo affluente. Ancora: lasciare a Saddam il Kuwait (terza provincia dell’Iraq) avrebbe significato consegnargli le chiavi del petrolio, indebolendo catastroficamente la ricchissima ma debolissima (militarmente) Arabia Saudita.
Ora non è che l’Europa si opponesse alla lezione di Bush voleva impartire al Tiranno dalle mani sporche di sangue;un po’ tutti si era convinti della “necessità”di mettere al passo il Tiranno. Ma c’è modo e modo: invadere l’Iraq accusandolo di collusione con lo sceicco della Morte, Osama, non sembrava, alla vecchia Europa, un argomento valido. Saddam è un poco di buono ma col terrorismo suicida di Osama non aveva complicità. Per dar legalità all’invasione, con conseguente sfratto del Tiranno, occorreva un casus belli serio. La condotta di Saddam che si vendeva di contrabbando il petrolio intascandole i proventi, anziché come da dettato dell’ONU, usarlo a beneficio del popolo sofferente, offriva non uno ma almeno sette validi casus belli. Gli americani preferirono agitare il tragico spauracchio di un bis delle Torri Gemelle e marciarono su Baghdad.
Rassegnata al volere del più forte, la vecchia Europa si domandò e chiese al Grande Alleato: “ma al dopo ,avete pensato al dopo? Avete pianificato l’avvio del processo democratico trasferendolo dal Pentagono alla sabbia mesopotamica?”.
Oggi, non senza sgomento, ci rendiamo conto che al dopo i nostri cari amici non avevano pensato. E così, dopo la facile vittoria (scontata) sul campo dove pochi reparti iracheni combatterono mentre, stranamente, l’aviazione non comparve; conclusa brillantemente l’operazione militare, gli Stati Uniti cominciarono ad inanellare tutta una serie di maldestre operazioni, riuscendo a realizzare un capolavoro in negativo; Ne citeremo due, di errori. I più macroscopici. Lo facciamo non senza amarezza poiché ci è impossibile dimenticare quanta “bella gioventù yankee” sia morta per ridarci la Libertà, dono sommo.
Primo errore: sciogliere il Baath, quel partito unico che non era una congrega di ideologi ma di intrallazzatori epperò reggeva il paese avendo il controllo delle risorse da distribuire. Bastava epurare il partito dei soliti mascalzoni, permettendo così ai quadri (relativamente) puliti di assicurare al paese un dignitoso tran tran. Invece dall’oggi al domani ottocentomila persone furono gettate in galera o sul lastrico. Una sorta di funesto domino dissolse la polizia nazionale e quella locale e il caos, alimentato dai delinquenti graziati da Saddam prima di darsi alla macchia, spalancò le sue enormi fauci inghiottendo ogni residua traccia di ordine legalitario, di banale normalità. (Da bravi democratici gli americani hanno riconosciuto l’errore sicché cercano, adesso di correre ai ripari-ma temiamo sia tardi) .
Secondo errore: sciogliere l’esercito. Col risultato di lasciare in giro una terribile Armata Brancaleone, armata di tutto punto, ferocemente delusa e indignata alla vista dei “nobili fuorusciti” cui gli Usa hanno affidato la gestione d’una scorta di governo provvisorio.
Le due davvero infauste operazioni di cui sopra ha fatto sì che l’Iraq divenisse terra di nessuno, solcata da bande irregolari, da assassini, da disperati, da nostalgici.
Certamente gli iracheni non conoscono le virtù della democrazia ma si aspettavano che alla tirannia subentrasse un “regime transitorio” nel segno dell’ordine della ripresa. Invece vuoi per spontaneismo nazionalista, vuoi per disperazione o, peggio, per odio la schiuma della terra ha finito con l’organizzarsi per colpire quegli Stati Uniti da molti considerati liberatori ma da non pochi occupanti dal grilletto facile. Per di più ignoranti del capitale culturalreligioso d’un paese fiero, gonfio di orgoglio nazionale. Aggiungasi che se è vero che Saddam non era amato è altrettanto vero che anch’egli fosse rispettato.
Era una carogna ma un raiss che bene o male assicurava pane e ordine.
Il partito unico era una mafia ma faceva funzionare la complessa macchina statale.
Qui giunti non staremo a cavillare sul tema del giorno: è resistenza quella che gli iracheni oppongono agli americani considerandoli truppe di occupazione, o no ? Non è resistenza nel senso sacrale della parola così come viene considerata in Italia, in Francia ma non si può negare che ci siano non pochi iracheni che “resistono” alla presenza degli americani, in particolare dei marines che sono giovani addestrati a fare la guerra, a fidarsi solo del proprio fucile, non boy scouts o addirittura “brava gente”
(ma non tocchiamo questo retorico tasto).
Sun Tee, forse il più antico esperto di guerra la lasciato detto di sfruttare i punti deboli : “Evitate la sua forza, colpite la sua inconsistenza”. E’ Ignacio Ramonet, direttore di Le Monde diplomatique, aggiunge: Badando bene a non fornire mai bersaglio agli occupanti, gli insorti iracheni mirano a imporre agli americano la linea di difesa passiva più lunga possibile, che è la forma più costosa di guerra”.
A complicare il tutto esiste e resiste la infernale situazione nel Vicino Levante. Due grandi popoli di Dio si scontrano, oramai da oltre sessant’anni, in quella Palestina che vide un giovine atletico ebreo divenire il Messia sacrificando la sua giovinezza sulla croce per il bene di tutti noi peccatori. Chi scrive ha amici nel campo palestinese e nel campo israeliano: conosce le angosce degli uni e degli altri. Non si fa illusioni sulla pace ( ci vorrà almeno una generazione) sa, però che la Terra Santa è piccola ma grande abbastanza per ospitare due grandi popoli di Dio.